Il sesso è (anche) lavoro
La visione dicotomica che individua nella sex worker la vittima da salvare o, in alternativa, la minaccia all’ordine sociale è ancora oggi quella più diffusa. A uno sguardo attento, però, il lavoro sessuale si presenta ricco di sfumature e declinazioni differenti. Un viaggio oltre lo stigma, gli stereotipi e i pregiudizi.
Un articolo del giornale di strada zebra. del luglio 2023
Il sesso è (anche) lavoro
La visione dicotomica che indi- vidua nella sex worker la vitti- ma da salvare o, in alternativa, la minaccia all’ordine sociale è ancora oggi quella più diffusa. A uno sguardo attento, però, il lavoro sessuale si presenta ricco di sfumature e declina- zioni differenti. Un viaggio oltre lo stigma, gli stereotipi e i pregiudizi.
“È tutta la vita che aspetto questo momento”. Così Pia Covre, fondatrice del Comitato per i diritti civili delle prostitute, ha aperto i lavori alla vigilia di “Sex workers speak out”, il primo congresso nazionale delle lavoratrici sessuali, che ha avuto luogo lo scorso 3 giugno a Bologna. In quest’occasione sex workers, attiviste e alleate hanno rivendicato il ruolo di soggetto collettivo in grado di intervenire nel dibattito pubblico e affermare i diritti di chi pratica sex work.
Le parole sono importanti
Il termine “sex worker” è stato coniato alla fine degli anni Settanta da Carol Leigh, lavoratrice sessuale, artista e attivista di San Francisco. La sua introduzione ha avuto una portata storica, perché, sottolineando la centralità del lavoro, permette a chi esercita questo mestiere di affermare i propri diritti sociali e civili, autodeterminarsi e dirsi cittadina come ogni altra lavoratrice. Attraverso questa definizione, inoltre, Leigh ha voluto azzerare la gerarchia tra le differenti declinazioni del lavoro sessuale e dare visibilità alla pluralità dei soggetti presenti tra i due poli della tipica rappresentazione moralizzatrice, che vede le sex workers quasi esclusivamente come “puttane felici” o vittime.
L’acquisto di prestazioni sessuali per denaro, infatti, apre le porte di un mondo molto vasto, che – allora come oggi – presenta situazioni di vita diverse e un’offerta di servizi molto varia: giovani che vendono prestazioni sessuali online, donne trans che offrono servizi in appartamento, donne italiane e straniere che propongono servizi di dominazione in casa o nei locali, cittadine straniere – comunitarie e non – che vendono sesso in strada. “Così come diverse sono le prestazioni offerte, sono anche differenti le risorse di cui le lavoratrici dispongono, non tanto in termini dicotomici di scelta o meno, ma di condizioni materiali”, afferma Giulia Selmi, sociologa e professoressa di Metodologia della ricerca sociale presso l’Università di Parma, la quale ritiene che “se ci si nasconde solo dietro questioni di tipo ideologico e morale non si produce alcun beneficio per le persone che svolgono lavoro sessuale, ma solo stigma”.
Giulia Zollino, antropologa e autrice del libro “Sex work is work”, individua nel cosiddetto stigma della puttana “un preciso dispositivo di controllo che non disciplina unicamente la sfera sessuale, bensì la condotta femminile nel suo complesso”. Secondo Zollino lo stigma colpisce le donne quando si appropriano di ruoli e atteggiamenti che la società non prevede per loro. Storicamente, infatti, il governo delle relazioni sociali separa le donne in termini di reputazione, suddividendole in donne “per bene” e “per male”. “Le prime sono quelle che stanno dentro una relazione istituzionale – su tutte il matrimonio – in cui l’uomo è garante della loro esistenza, mentre la seconda definisce chi non rientra in questo tipo di relazione e ha comunque rapporti sessuali”, spiega Giulia Selmi. Il disciplinamento della sessualità femminile nella società contemporanea si abbatte soprattutto su chi svolge lavoro sessuale, espressione massima dell’essere “per male”, e, puntualizza Selmi, “lo stigma che colpisce le sex workers non è solo simbolico, ma ha ripercussioni molto concrete sulle loro vite”: condizioni lavorative pericolose, difficoltà nell’accesso al mercato immobiliare e un quadro legislativo schizofrenico.
Lavoro e attivismo
Iniziato quattro anni fa per curiosità col tempo il sex work online per Gaia è diventato un lavoro vero e proprio. Questa professione rappresenta una valida risorsa per chi, come lei, può negoziare le proprie condizioni. “Il sex work mi dà grande libertà”, confessa, “perché ho il tempo di gestire gli appuntamenti e il carico di lavoro in autonomia, come tante altre libere professioniste”.
Sono però diversi gli ostacoli che la giovane donna incontra in quanto sex worker: dai giudizi della gente all’ostilità della burocrazia, passando per la difficoltà di trovare un alloggio in affitto.
Quando va dal medico per delle visite di controllo, per esempio, Gaia non sempre dichiara quale professione svolge per “evitare di essere guardata con gli occhi del padre amorevole o, in alternativa, sorbirmi una ramanzina”.
Un altro scoglio insormontabile è la questione fiscale. Una sex worker potrebbe aprire una partita IVA (Codice Ateco 96.06, “Altre attività di servizi per la persona”) e dichiarare i propri incassi – Gaia lo farebbe volentieri – “ma trovare un commercialista e, soprattutto, un sistema di partita IVA e Codice Ateco che non preveda la fatturazione con il codice fiscale del cliente è complicatissimo”. Nella sua esperienza, infatti, i clienti disposti a fornire le proprie generalità si contano sulle dita di una mano. Ancora più spinosa la “questione casa”.
Se una sex worker svolge le proprie sessioni in un appartamento in affitto, il proprietario dell’immobile corre il rischio di essere denunciato per favoreggiamento della prostituzione. “Ci sono locatori che corrono questo rischio, ma per 'tutelarsi' stabiliscono un prezzo maggiorato per l’affitto”, rivela Gaia, convinta che “la prima risposta contro lo stigma e le difficoltà materiali che si incontrano è poter contare su una rete di supporto”.
Da un anno e mezzo la giovane donna fa parte di SWIPE-Sex Work Intersectional Peer Education, realtà che promuove la solidarietà tra sex workers, svolge attività di rivendicazione dei loro diritti e combatte lo stigma intorno a questo mestiere. “La rete è molto importante anche per il supporto psicoaffettivo e pratico che garantisce, per esempio, dando indicazioni su come gestire certe interazioni con i clienti o attraverso consigli di natura legale”, spiega Gaia. SWIPE, inoltre, è parte di ESWA-European Sex Worker Alliance e ha occasioni di scambio e confronto con le altre realtà europee. A novembre dello scorso anno Gaia ha rappresentato l’associazione al congresso europeo di sex workers e alleate a Bruxelles e ricordando l’esperienza reputa che “è stato importante vedersi riconosciute in una sede istituzionale come lavoratrici e discutere di sex work al Parlamento Europeo”. Se a livello europeo un dialogo tra la rete delle lavoratrici sessuali e le istituzioni pare essere avviato, in Italia sex workers e alleate si scontrano con la miopia delle forze politiche e con un quadro giuridico che può assumere i contorni della trappola.
Una legge obsoleta
Il lavoro sessuale in Italia è disciplinato dalla legge Merlin del 1958 (“Abolizione della regolamentazione della prostituzione e lotta contro lo sfruttamento della prostituzione altrui”), che decretò la chiusura delle Case di tolleranza e introdusse i reati di sfrutta- mento, induzione e favoreggiamento della prostituzione. Quando fu votata questa legge aveva un senso – “liberare” le prostitute dalle condizioni disumane in cui si trovavano –, ma col passare degli anni si è rivelata sempre più escludente perché fa riferimento a una sola declinazione del lavoro sessuale ed è fondata su un giudizio etico specifico basato sull’assioma che identifica la prostituta unicamente come vittima. Formalmente nel nostro Paese lo scambio sessuo-economico tra lavoratrice e cliente è lecito, ma lo spettro del favoreggiamento – “chiunque in qualsiasi modo favorisca la prostituzione” – è una minaccia costante per le sex workers e per chi gravita intorno a loro. Come spiega la sociologa Giulia Selmi “questo reato può colpire indiscriminatamente ogni forma cooperativa di supporto, anche informale, e non fa altro che acuire la marginalizzazione delle sex workers”. È il caso richiamato da Gaia riguardo la ricerca di un alloggio in affitto, ma anche quello del tassista che conduce una sex worker sul luogo di lavoro o delle lavoratrici che vogliono riunirsi in associazione, fino ad arrivare al paradosso accaduto qualche anno fa nelle Marche, dove alcune unità di strada sono state sanzionate per aver prestato interventi di riduzione del danno in favore delle sex workers. Anche in tempi recenti, il dibattito politico intorno al sex work non si è discostato molto dall’impianto e dalla visione della Legge Merlin. Lo scorso anno, per esempio, prima della caduta del Governo Draghi il Parlamento ha discusso il ddl Maiorino. Ispirato dalle legislazioni adottate da Svezia, Norvegia e Islanda, – il cosiddetto modello nordico – il testo intendeva eliminare il sex work, anziché regolamentarne l’esercizio. Il ddl Maiorino definiva il lavoro sessuale come un’attività lesiva della dignità umana e identificava le lavoratrici del settore come soggetti fragili da tutelare, ignorando il libero arbitrio e il principio di autodeterminazione. La novità introdotta dalla proposta di legge era costituita dalla possibilità di perseguire i clienti tramite sanzioni pecuniare e pene detentive al fine di colpire la domanda, che i promotori della legge definiscono “il vero motore del commercio di esseri umani e in particolare delle donne, che costituiscono il 77 percento delle vittime di tratta a livello globale”. Secondo numerose associazioni di sex workers e alleate, come per esempio il collettivo Ombre Rosse e il MIT-Movi- mento Identità Trans, però, dispositivi di questo tipo finiscono per penalizzare le lavoratrici più vulnerabili, nella maggior parte dei casi proprio cittadine straniere in situazioni di sfruttamento, che sono costrette ancora di più nella clandestinità.
Contro lo sfruttamento
“Quando ho iniziato questo lavoro mi ha colpito il pregiudizio che associa automaticamente le donne colombiane alla prostituzione”.
Gina Quiroz, nata in Colombia e cresciuta in Spagna, nel 2011 è entrata a far parte dell’Unità di contatto del Gruppo Volontarius per “Alba”, il progetto antitratta del Trentino-Alto Adige, di cui da otto anni è responsabile dell’“area emersione” per la provincia di Bolzano. L’articolo 3 del protocollo di Palermo del 2000 definisce la tratta come “il reclutamento tramite coercizione a scopo di sfruttamento e prevede la prostituzione, il lavoro forzato e il prelievo di organi”. Insieme al suo team, composto da altre cinque operatrici, Quiroz intraprende azioni mirate all’emersione dello sfruttamento sessuale attraverso due modalità di contatto: in strada e indoor. Il lavoro in strada si concentra soprattutto a Bolzano, mentre per la ricerca indoor le operatrici consultano gli annunci di incontri online e si recano poi negli appartamenti diffusi su tutto il territorio provinciale. “Nei primi anni Duemila il target del nostro servizio era costituito principalmente da donne provenienti dall’Europa dell’est e dal Sudamerica”, spiega l’operatrice sociale, che ricorda come poi “dal 2015 in strada abbiamo osservato un aumento delle donne nigeriane, spesso richiedenti protezione internazionale”. In un mondo ricco di sfumature qual è il sex work, per l’equipe di Alba è molto utile fare riferimento alla cornice legale e agli indicatori che consentono di individuare elementi sintomatici di situazioni riconducibili alla tratta. “Cerchiamo di capire, per esempio, se una persona è libera di scegliere autonomamente l’orario di lavoro, la modalità di svolgimento o la gestione del proprio guadagno”. Nel contatto con le sex workers, Quiroz e le sue collaboratrici creano una relazione di fiducia per accogliere eventuali richieste di aiuto. Da qui parte la presa in carico della persona, la tutela e il suo successivo inserimento in un percorso di integrazione sociale. Incontrando tante donne e ascoltando le loro storie, in questi dodici anni Quiroz ha osservato che per molte il lavoro sessuale è una professione a tutti gli effetti e che le sex workers sono soprattutto sorelle e madri e affrontano problemi molto comuni. La responsabile dell’Unità di contatto di Alba evidenzia, inoltre, che ci sono persone che dichiarano di aver saldato il debito e di essere uscite dallo sfruttamento, ma continuano a esercitare la professione di sex worker perché non hanno trovato un altro lavoro oppure ce l’hanno ma è malpagato e hanno necessità di arrotondare per mantenere la famiglia nel Paese di origine. È questo che la sociologa Giulia Selmi definisce “una strategia di emancipazione all’interno di un percorso migratorio che si realizza in una società capitalista diseguale, in cui chi è nato nei Paesi del Sud globale dispone di meno opzioni rispetto a chi è nata bianca e borghese”.
Quando le circostanze portano in strada
insieme al suo compagno Alessandro, anche lui lavoratore sessuale, in una roulotte alla periferia nord di Bolzano. Da giovane la donna aveva lavorato come giornalista in Romania e in Italia, dove è arrivata 26 anni fa, ha svolto diverse professioni: operatrice socio-sanitaria, badante, operaia agricola e commessa in un panificio.
Nel 2016, però, si è trovata di fronte a un bivio: dopo un lungo periodo di disoccupazione, con un debito di decine di migliaia di euro e una ricerca lavoro che non dava frutti – “durante i colloqui alcuni mi rispondevano che ero troppo vecchia, altri mi chiedevano di avere rapporti” – ha capito di doversi arrangiare come poteva e ha deciso di dedicarsi al sex work. I primi tempi in strada cercava di imitare le altre donne, ma di errori ne ha fatti tanti. “Sono state le colleghe a spiegarmi le regole fondamentali del mestiere outdoor: comunicare al cliente tempi, prestazioni, tariffe e ovviamente che qualsiasi tipo di rapporto avviene solo se protetto”, racconta. Da cinque anni Claudia lavora a poca distanza da Alessandro. La coppia ha stabilito alcune strategie per tutelarsi, perché “la strada è una giungla: non sai mai chi può salire in macchina e non ci si può fidare nemmeno dei clienti fissi”. Se, per esempio, uno dei due si allontana con un cliente e dopo 20/30 minuti non è di ritorno, l’altro*a interviene andando a controllare che sia tutto a posto. Un aspetto del lavoro sessuale su cui non transigono è la prevenzione. “Manteniamo uno standard di protezione e igiene altissimo, perché la salute non ha prezzo”, spiegano. Sono poi anche altri gli aspetti difficili da gestire per una coppia di sex workers. “Amarsi e sapere che il tuo partner è in macchina con un altro uomo non è facile da digerire, però siamo consapevoli che si tratta solo di lavoro e non c’è coinvolgimento emotivo”, confessa la donna. È a casa che i sentimenti trovano spazio, come per tante altre coppie. Per Claudia e Alessandro è proprio il camper il luogo di intimità, dove il mondo rimane fuori. Una volta staccato dal lavoro, per i due subentra la vita quotidiana, fatta di abitudini, piccole gioie e delusioni. “La nostra è una vita molto normale: cuciniamo, facciamo le pulizie, a volte la sera usciamo o, in estate, mettiamo in moto il camper e trascorriamo qualche giorno al mare”. Claudia ritiene che l’esperienza come sex worker abbia contribuito a renderla una persona più forte, in grado di capire meglio chi ha di fronte. Anche se non consiglierebbe di fare questo lavoro nelle condizioni in cui lo svolge lei, la donna comunque è contenta di aver scelto questa strada sette anni fa, perché “mi ha permesso di farcela nonostante il sistema e la società non mi abbiano dato alcun supporto”. Oggi Claudia ha saldato tutti i suoi debiti e può immaginare un futuro in Romania, dove progetta di trasferirsi tra qualche anno insieme ad Alessandro.
Che fare? Decriminalizzare
Tra i Paesi europei i modelli di policy che riscontrano maggiori adesioni sono quello abolizionista e quello che prevede la legalizzazione del sex work. Al primo si è allineata anche la Francia nel 2016, mentre il secondo è adottato da Paesi come Olanda e Germania. Per le lavoratrici sessuali, attiviste e addette ai lavori l’abolizionismo non è la strada da seguire, perché la realtà dei fatti dimostra che in questi Paesi penalizzando la domanda, l’offerta non è sparita. Anche la neo-legalizzazione nasconde delle insidie, poiché, spiega Giulia Selmi, “sebbene questo modello abbia riconosciuto alle lavoratrici sessuali alcuni diritti, ha mantenuto un alto livello di discriminazione con l’introduzione di alcuni dispositivi che non fanno altro che rafforzare lo stigma, come l’iscrizione obbligatoria a un registro e la definizione di uno spazio urbano circoscritto in cui svolgere la professione”. La via indicata dalle partecipanti al convegno “Sex workers speak out” di Bologna è un’altra: la decriminalizzazione. Adottato dal Belgio nel 2022, questo modello prevede la depenalizzazione del lavoro sessuale e lo parifica a una qualsiasi altra professione. Nella Risoluzione del 15 agosto 2015, Amnesty International ha giudicato la decriminalizzazione “il miglior modo per difendere i diritti umani delle sex workers e mitigare i rischi di abusi e violazioni nei loro confronti”. Finora la discussione politica e i processi decisionali intorno al sex work in Italia, inoltre, raramente hanno coinvolto le associazioni e i collettivi di lavoratrici e alleate. È questo un altro tabù da infrangere secondo Porpora Marcasciano, presidente del MIT e consigliera comunale a Bologna, che ritiene fondamentale ricamare intrecci tra movimenti e istituzioni. “Solo così potranno essere prese decisioni che consentirebbero alle sex workers di vivere il quotidiano in maniera libera e tutelata”.