Corpi Negati Un articolo del giornale di strada zebra.
I Centri di Permanenza per il Rimpatrio (CPR) sono luoghi deputati alla detenzione amministrativa e al successivo rimpatrio di cittadini*e extracomunitari*e irregolarmente presenti sul territorio italiano. Da anni avvocati*e e attivisti*e denunciano le sistematiche violazioni dei diritti e le violenze che avvengono al loro interno.
Testo e foto: Alessio Giordano
Un articolo del giornale di strada zebra. del settembre 2021.
Ventimiglia, 9 maggio 2021. Moussa Balde sta facendo l’elemosina davanti un supermercato quando viene picchiato selvaggiamente da tre italiani. Un video di 42 secondi mostra la violenza cieca dell’aggressione: Balde viene colpito alla testa con un portacenere a colonna e un altro oggetto cilindrico. Una volta a terra, i tre continuano a prenderlo a calci. Il 23enne guineano finisce in ospedale e, poiché illegale sul territorio, quando denuncia il pestaggio gli viene notificato un decreto di espulsione e di trattenimento nel CPR di Torino. Viene condotto lì senza alcuna verifica delle sue condizioni di salute fisica e psicologica. Trasferito in una cella di isolamento – il cosiddetto “ospedaletto” - a causa di una psoriasi scambiata per scabbia, passa in poche ore da vittima di un’aggressione a colpevole. Tredici giorni più tardi, Balde si suicida impiccandosi con un lenzuolo. È il sesto morto negli ultimi tre anni all’interno di un CPR.
La detenzione amministrativa
I CPTA-Centri di permanenza temporanea e assistenza (poi CPT, in seguito CIE, oggi CPR) furono introdotti nel 1998 dalla legge Turco-Napolitano. Si tratta di strutture la cui gestione viene affidata a privati che partecipano a un bando delle Prefetture e sono destinate alla detenzione amministrativa: le persone recluse, infatti, non hanno commesso alcun reato penale e sono in attesa di rimpatrio. In Italia sono oggi dieci le strutture distribuite in tutto il Paese (v. grafica). I CPR hanno alle spalle una storia ventennale, segnata da una continuità di visione e obiettivi delle forze politiche di destra e sinistra che nel corso degli ultimi due decenni si sono alternate al governo del Paese. Negli anni scorsi si era verificato un leggero depotenziamento di questo strumento: nel 2015 furono abbreviati i tempi di trattenimento e alcune strutture erano state chiuse dopo che una serie di rivolte le avevano rese inutilizzabili. Dal 2017, però, la detenzione amministrativa conosce una fase di costante accelerazione: sono stati aperti nuovi CPR (Milano, Caltanissetta, Trapani-Milo, Macomer, Palazzo San Gervasio), e vi è stata una ridefinizione dei criteri legislativi, dei luoghi e delle modalità con cui i trattenimenti avvengono.
A segnare un punto di svolta in questo senso è stato il decreto Minniti-Orlando del 2017, che si prefiggeva l’obiettivo di aprire un centro in ogni regione italiana e che ha introdotto il trattenimento nei cosiddetti “luoghi idonei” diversi dai CPR, come per esempio le questure, le camere di sicurezza e le zone aeroportuali. In seguito, la riforma della ministra Lamorgese dell’ottobre 2020 ha sì ridotto i termini di trattenimento a 90 giorni - che il decreto del suo predecessore Salvini aveva alzato a 180 - ma ha previsto un’opzione particolare della loro estensione per i*le cittadini*e provenienti dai Paesi con cui l’Italia ha siglato accordi di cooperazione per la lotta all’immigrazione irregolare, su tutti la Tunisia. Queste persone possono essere ora trattenute trenta giorni oltre i termini ordinari. Dallo scoppio della pandemia, l’ultima frontiera della detenzione amministrativa vede in prima linea le navi quarantena, primo filtro dei flussi migratori: a molti viene fatto dichiarare di aver raggiunto l’Italia per ragioni economiche e da lì scatta il meccanismo che porta al rimpatrio. Ciò si realizza attraverso una limitazione della libertà personale di 15 giorni al largo delle coste del nostro Paese.
Uno strumento inefficace
Sebbene politicamente si punti con decisione sui rimpatri per combattere l’immigrazione cosiddetta clandestina, dati alla mano questo strumento risulta essere inefficace. Il “Rapporto sulle visite effettuate nei CPR nel periodo 2019-2020” a cura del Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale riporta che nel 2019 “su un totale di 6172 persone transitate nei CPR quelle effettivamente rimpatriate ammontavano a 2992.” Chi non viene rimpatriato, una volta terminato il periodo di detenzione, si trova in una situazione paradossale: torna in libertà, sempre in condizioni di irregolarità, con l’obbligo di lasciare il territorio nazionale.
Sono molti poi i lati oscuri e le violenze che si consumano all’interno dei CPR, denunciate dalle persone trattenute e segnalate da associazioni, legali e attivisti*e. “Il momento della convalida del trattenimento rappresenta un caso legislativo unico”, afferma Carlo Caprioglio, ricercatore e docente di Clinica del Diritto dell'Immigrazione e della Cittadinanza presso l’Università degli studi Roma Tre. Si tratta, infatti, dell’unico caso in cui il giudice di pace si esprime sulla detenzione. Vi è poi la prassi di convalidare il trattenimento di soggetti con vulnerabilità mediche, sottoponendo la convalida della detenzione alla successiva verifica dell’idoneità della persona alla condizione di trattenimento. “Questa pratica non è prevista dalla legge ed è illegittima anche dal punto di vista sostanziale: se una persona non può stare all’interno di un CPR per motivi di salute, nel centro non dovrebbe nemmeno metterci piede”, afferma il ricercatore. La popolazione dei CPR è eterogenea: sono trattenuti richiedenti asilo, soggetti con patologie mediche e/o psichiatriche, minori (non sarebbe consentito dalla legge), ex-detenuti che hanno finito di scontare la pena, tossicodipendenti, persone che hanno perso il lavoro e che non hanno potuto rinnovare il proprio permesso di soggiorno. Il Garante Nazionale, inoltre, ha osservato che “nei CPR sono assenti locali sanitari adibiti all’osservazione di persone in particolari condizioni di vulnerabilità medica”: il diritto alla salute non è garantito, sono molte le persone vulnerabili e permane il problema degli psicofarmaci distribuiti per calmare, sedare e gestire la popolazione detenuta. “Ex-detenuti che hanno poi subito un trattenimento in un CPR dicono “in carcere stavo meglio”, perché per quanto le condizioni delle carceri italiane siano disastrate, la vita lì è più regolata e può essere scandita da alcune attività”, sostiene Caprioglio. Nei CPR non sono previsti momenti e spazi di socializzazione, la comunicazione verso l’esterno viene ostacolata e resa quasi impossibile. Non esiste mobilio, i pochi elementi di arredo – tavoli e panche - sono chiodati a terra. L’individuo smette di essere una persona con una propria totalità da preservare nella sua dignità, dimensione sociale, culturale e relazionale per essere ridotta esclusivamente a corpo da trattenere e confinare. Secondo Caprioglio “questa è una delle cause che porta le persone a compiere atti di autolesionismo e gesti estremi. Ci sono persone che si sono cucite le labbra o hanno ingerito pezzi di vetro e altre, come Moussa Balde, che si sono tolte la vita”. Il corpo è spesso l’unico strumento a disposizione delle persone trattenute.
Il grido di chi non ha voce
Il 5 giugno, appena varcata la soglia del CPR di via Corelli a Milano per un’ispezione, il senatore De Falco e la senatrice Nocerino, accompagnati da alcune attiviste, si sono trovati di fronte un ragazzo che si stava procurando atti di autolesionismo. La risposta a questa sofferenza è stata un altro corpo, armato e in tenuta antisommossa. “Questa violenza è l’esemplificazione della violazione dei diritti che avviene nei CPR”, afferma Sofia Coppola, attivista campana trapiantata a Milano, membro della Rete “Mai più lager-No ai CPR”. La Rete nasce nel 2019 e monitora quanto accade nel CPR, denunciando le violenze e le irregolarità e per il riconoscimento dei diritti negati all’interno del centro del capoluogo lombardo. La notte tra il 25 e il 26 maggio nel centro di via Corelli ha avuto luogo una rivolta, conseguenza di un pestaggio di un detenuto avvenuto in uno spazio in cui non sono installate videocamere di sorveglianza.
“Alcuni detenuti hanno raccontato che c’è stata poi la “smazziolata” - la punizione dei rivoltosi a suon di botte - come se la violenza fosse una prassi abituale per ripristinare l’ordine venuto meno”, spiega l’attivista, che prosegue raccontando come “negli ultimi mesi dal centro di via Corelli sono usciti corpi martoriati e il dolore fisico non si può quasi equiparare alle sofferenze a ai traumi che le persone vivono a un livello più profondo.”
In questo periodo, però, alcune rivendicazioni della Rete stanno trovando il modo di farsi strada. In seguito all’ispezione del 5 e 6 giugno da parte del senatore De Falco e della senatrice Nocerino è stato redatto il report “Delle pene senza delitti”. Si è creato un precedente importante, entrando in questi luoghi impermeabili e mettendo nero su bianco le negazioni che chi è entrato nel CPR ha potuto testimoniare. A partire da questa documentazione sono stati presentati due esposti alla procura: uno per lesioni e tortura aggravata e un altro per rifiuto di atti di ufficio, che richiede il sequestro preventivo del CPR per la totale indisponibilità di cure sanitarie specialistiche all'interno del Centro. Il CPR di Milano, infatti, non ha una convenzione con l’Agenzia per la Tutela della Salute regionale, né col SerT sebbene tra i trattenuti ci siano moltissimi tossicodipendenti e persone che iniziano a soffrire della dipendenza da psicofarmaci. “Il nostro obiettivo è fare informazione, sollecitare l’opinione pubblica. Dare voce alle persone trattenute è un primissimo passo, il dossier è dedicato a loro”, conclude Coppola.
Accendere i riflettori
Nonostante le morti, le violenze perpetrate all’interno dei CPR e la scarsa efficacia del sistema dei rimpatri, considerando l’attuale sentimento pubblico verso il tema della migrazione e il quadro politico istituzionale italiano non sembra esserci molto spazio per costruire percorsi dal basso che portino a un cambiamento radicale del sistema. Se le notizie sui lager in Libia, sui centri di detenzioni per migranti australiani sull’isola di Manus o i minori separati dalle famiglie e detenuti al confine tra Stati Uniti e Messico destano scalpore, l’opinione pubblica italiana non appare altrettanto interessata a situazioni analoghe che avvengono nel nostro Paese. L’abolizione dei CPR, obiettivo ultimo della Rete “Mai più Lager-No ai CPR” e di altre realtà locali e nazionali come per esempio la campagna LasciateCIEntrare, che da dieci anni svolge un egregio lavoro di monitoraggio e denuncia contro la detenzione amministrativa dei*lle migranti, è molto lontana. Accendere i riflettori sugli spazi di contenimento dei soggetti marginali potrebbe però contribuire a scuotere le coscienze di chi ha una sensibilità, magari sopita, verso questi temi. Altrettanto importanti sono le azioni legali: è essenziale riuscire a entrare nei centri e testimoniare le storture del sistema, per intraprendere azioni di advocacy e permettere alle persone di uscire dai CPR. Anche se il percorso verso la chiusura di questi centri appare lungo e complicato, il recente esempio di Milano è un primo passo importante da cui ripartire. Con un po’ di ottimismo si potrebbe considerare che l’Italia è stato il primo Paese a chiudere i manicomi e che a volte anche ciò che appare impensabile si può realizzare.