Una casa per ricominciare
Un articolo sul programma di sostegno fondato sul diritto all’abitare: Housing First. Questo modello, diffuso anche in Italia, intende porre fine all’approccio emergenziale che ha contraddistinto finora il contrasto alla grave emarginazione.
Testo: Alessio Giordano
Foto: Alessio Giordano
Un articolo del giornale di strada zebra. del febbraio 2022
Dare una casa alle persone senza dimora non è un’utopia ma un programma di sostegno fondato sul diritto all’abitare e diffuso da decenni in tutto il mondo: l’Housing First. Questo modello, diffuso anche in Italia, intende porre fine all’approccio emergenziale che ha contraddistinto finora il contrasto alla grave emarginazione.
Nicole non parla volentieri delle difficoltà che ha affrontato nel corso della sua vita e del periodo vissuto per strada. Si riferisce a quegli anni come “a quel periodo un po’ così”, ma dal suo sguardo si capisce che ne ha passate tante. Nata e cresciuta in Lombardia, si trasferisce a Bologna nel 2006 dove si mantiene facendo lavori saltuari. Nel 2013 perde il lavoro, poi la casa. “Vivere in strada è dura”, ammette, “ma non rinnego quell’esperienza, perché fa parte del mio percorso e ha contribuito a fare di me la persona che sono oggi”. Dopo due anni nel circuito dei dormitori del capoluogo emiliano, le viene offerta la possibilità di prendere parte a un progetto innovativo per il nostro Paese, andando a vivere da subito in un appartamento in condivisione con altre due donne. È il 2016 e Nicole è pronta a voltare pagina e a iniziare un nuovo capitolo della sua vita.
Un cambio di paradigma
In Italia e in Europa il sistema di sostegno per le persone senza dimora si basa in larga parte sul modello “a gradini”: una persona passa per i servizi a bassa soglia – centri diurni e dormitori -, se riesce a resistere col tempo potrà accedere a una struttura di primo livello, poi a una di secondo livello e solo allora potrà ambire a trovare un appartamento in autonomia. La casa, quindi, costituisce il punto di arrivo di un percorso lungo e tortuoso nel quale le persone senza dimora rimangono spesso bloccate, basato sul merito e costantemente minacciato da eventuali dipendenze, condizioni di salute precaria, problemi economici e regole rigide. Questo sistema è lo specchio di un approccio emergenziale, laddove l’emergenza è ormai da tempo un problema di ordine strutturale. La “Quarta panoramica sull’esclusione abitativa” realizzata da FEANTSA e dalla Fondation Abbé Pierre nel 2019, riporta che in Europa sono 700mila persone senzatetto e 8.853.048 le famiglie che vivono in alloggi inadeguati. In Italia, secondo l’ultimo rapporto ISTAT, le persone senza dimora sono circa cinquantamila, più di cinque milioni sono i*le cittadini*e che vivono in condizioni di povertà assoluta e più di cinquantamila i provvedimenti di sfratto eseguiti in un anno. Il modello “a gradini”, che vede la casa come la ricompensa finale, mostra da tempo i propri limiti.
A ribaltare questo paradigma è un altro tipo di approccio: il modello Housing First. Sviluppato dallo psichiatra americano Sam Tsemberis negli anni ’90 a New York, l’Housing First si fonda sul diritto all’abitare e parte dal presupposto che, senza una situazione abitativa stabile e confortevole, per una persona sia quasi impossibile iniziare un processo di cura, risollevarsi da una condizione di grave marginalità e attuare un percorso di reinserimento sociale. Il modello di Housing First elaborato da Tsemberis collocava in monolocali persone senza dimora croniche con problemi di salute mentale o disabilità, supportate nel lungo periodo da una rete di professionisti degli ambiti sociale e sanitario. La prima sperimentazione, “Pathways to housing”, fornì un alloggio a 139 persone. I risultati furono molto positivi: in un articolo pubblicato sul Washington Post, Terrence McCoy riporta che l’85 percento dei beneficiari riuscì a trovare una stabilità e non fece ritorno in strada. Negli anni seguenti l’Housing First varcò i confini degli USA, giungendo prima in Canada e poi in Europa. Nel 2014, nel nostro Paese nasce la Rete Housing First Italia, fondata dall’associazione per persone senza dimora fio.PSD (Federazione Italiana Organismi per le Persone Senza Dimora). A Bologna, però, già qualche anno prima erano iniziate le prime esperienze di Housing First.
Il primo progetto di Housing First in Italia
“Nel 2012 la cooperativa Piazza Grande decide di adottare il modello Housing First senza finanziamento pubblico, inserendo in diversi appartamenti 28 persone singole e 10 nuclei. Dopo un anno il comune di Bologna, incoraggiato dal successo del programma, avvia una co-progettazione”, racconta Sara Giusti, sociologa, educatrice sociale e coordinatrice del progetto Housing First della cooperativa Piazza Grande. Due anni più tardi il comune istituisce ufficialmente il progetto Housing First – Co.Bo affidando la gestione ad ASP (Azienda Servizi alla Persona), che apre a sua volta un bando a cui possono partecipare associazioni e cooperative. Piazza Grande fa parte del consorzio vincitore del bando e assume il ruolo di cooperativa esecutrice del progetto. Dal 2015 ad oggi, all’interno degli appartamenti della cooperativa sono transitate circa 130 persone. Attualmente le persone inserite in progetto sono 74, suddivise in 33 appartamenti sparsi per la città: 31 in condivisione e due monolocali. Housing First non è un progetto a termine, ogni persona può restare in casa tutto il tempo che lo desidera. I nuovi ingressi avvengono in base alle uscite dei*lle beneficiari*e e anche per questo, afferma Giusti, “il ricambio non è altissimo: ogni anno si contano tra i 10 e i 15 nuovi inserimenti”. Due volte all’anno i servizi sociali e sanitari del territorio possono segnalare persone aderenti al target di riferimento, che secondo la classificazione Ethos comprende persone in strada, in struttura di accoglienza o in sistemazioni di fortuna (cantina senza servizi igienici, accampamenti informali) e che oltre al bisogno abitativo necessitano di un supporto educativo. “La lista di attesa non è una graduatoria”, spiega la coordinatrice del progetto, “perché avendo convivenze dobbiamo cercare di creare dei buoni “match”, considerando le richieste, i desideri e bisogni sia di chi già vive in Housing First, sia di chi aspetta di entrarci.” Le case sono in autonomia e ogni persona inserita in progetto ha un operatore di riferimento. Sono invece due gli operatori per ogni casa che sulla base delle esigenze organizzano riunioni – ma anche pranzi o cene – per affrontare eventuali problemi di convivenza. Il supporto educativo per ciascun*a beneficiario*a varia per intensità: si passa da due (bassa intensità) a quattro ore (media intensità), fino ad arrivare a sei ore settimanali (alta intensità) con l’operatore o l’operatrice. “Chi afferisce al progetto firma un accordo abitativo con la cooperativa, in cui vengono indicate le tre regole fondamentali di Housing First: accettare l’intervento educativo a livello individuale e domiciliare, versare un contributo per l’affitto – 150 euro se la persona ha un reddito inferiore a 500 euro o il 30% del reddito se superiore - e rispettare le norme di civile convivenza all’interno della casa e del condominio”, spiega Giusti. Gli appartamenti del progetto Housing First vengono affittati sul libero mercato e Piazza Grande si assume in questo senso un rischio di impresa. I contratti di affitto e le utenze (circa 1000 euro al mese per un appartamento per tre persone) sono intestate alla cooperativa: il bando comprende il pagamento di una parte delle spese, il resto è coperto dal contributo dei*lle beneficiari*e. Se una persona si trova in difficoltà e smette di pagare per la cooperativa si viene a creare un buco finanziario. A questo proposito, Giusti sottolinea che “è quindi importante lavorare in rete, affinché i servizi di riferimento della persona la supportino se dovesse sorgere un problema, altrimenti il progetto non si sostiene”.
La mia casa
Nicole vive da cinque anni in un appartamento del progetto Housing First a San Donato, quartiere situato a nord-est di Bologna. “Quando, dopo due anni in strada, ho ricevuto la chiamata di Piazza Grande ero molto contenta”, confessa. Facendo un bilancio della sua esperienza, ritiene che “la teoria corrisponde alla realtà”, anche se a volte ci possono essere delle difficoltà legate agli aspetti pratici della convivenza, come per esempio la cura degli spazi comuni o il corretto utilizzo degli elettrodomestici. Nel corso degli anni ha avuto diverse coinquiline e il primo impatto con le altre donne non è stato sempre semplice. “La prima convivenza non era andata bene per un’incompatibilità di carattere: io venivo da un momento complicato e l’altra persona aveva a sua volta grandissime difficoltà.” Oggi l’atmosfera in casa è serena e con una delle attuali coinquiline è nata una vera e propria amicizia. Il passaggio dalla vita comunitaria del dormitorio alla solitudine di un appartamento per lei ha presentato però anche delle insidie. “In una struttura ero costantemente a contatto e in interazione con gli altri”, racconta, “mentre entrata in appartamento mi sono ritrovata sola nella mia stanza”. Un aiuto per superare i momenti di solitudine gliel’ha dato Billy, il cane che dopo qualche tempo ha deciso di adottare insieme a una sua ex-coinquilina. “Billy mi ha aiutato a provare sensazioni che pensavo di aver perso per sempre e, soprattutto, a interagire con il mondo esterno. Ci siamo presi cura l’uno dell’altra”. Nel parco vicino casa dove lo porta a passeggio, come nelle scene più classiche i cani giocano insieme e gli umani si avvicinano per chiacchierare. Nicole è “obbligata” a interagire con gli*le abitanti del quartiere: conosce nuove persone, nascono alcune amicizie. Billy ora vive con l’ex-coinquilina di Nicole, che, uscita dal progetto Housing First, è andata a convivere con il ragazzo. Si prendono, però, ancora cura del cane insieme e Nicole continua a vederlo e a portarlo al parco. Quando pensa al futuro, la 45enne di origine lombarda afferma di non sapere cosa farà “da grande”. Non ha ancora fatto richiesta per una casa dell’edilizia pubblica ACER (Azienda Casa Emilia Romagna) e per il momento non vuole lasciare il progetto di Housing First. In questi anni Nicole ha fatto tanti passi avanti. Attualmente ha un contratto part-time a tempo indeterminato in una falegnameria. Lavorare il legno è una passione che occupa anche gran parte del suo tempo libero. Un giorno vorrebbe mettersi in proprio, creando un piccolo laboratorio e magari vendendo i mobili che realizza. “Avere uno spazio mio, una mia intimità, ha fatto la differenza. La casa mi ha dato la possibilità di riordinare le idee e, piano piano, di pensare al futuro.”
Ad oggi sono 74 i progetti di Housing First attivi sul territorio nazionale (v. infobox). Ancora pochi per scardinare il modello “a gradini” secondo Sara Giusti, la quale ritiene importante ridurre la distanza tra società e persone ai margini, perché la condizione di senza dimora è spesso legata a problematiche quotidiane - prezzi sempre più alti, affitti insostenibili, disoccupazione - che potrebbero toccare tutti*e. Per il futuro Giusti si augura che “più realtà aderiscano a Housing First, perché il diritto alla casa è fondamentale per chi deve riprendere in mano la propria vita” e auspica, inoltre, la creazione di percorsi che facilitino l’ingresso dei*lle beneficiari*e in circuiti diversi da quelli della grave emarginazione, affinché possano costruire nuove relazioni. Un po’ come ha fatto Nicole, che pensando ai cinque anni appena trascorsi confessa che “prima, guardando dal balcone i palazzi di fronte, vedevo solo muri e finestre, adesso invece guardo le case e so che dentro ci sono persone, ognuna con la sua storia, proprio come me”.