Ferite da ricucire
Il 24 aprile 2013, a Dacca, capitale del Bangladesh, il Rana Plaza - un palazzo di otto piani che ospitava al suo interno cinque imprese tessili - crollò a causa di un cedimento strutturale dovuto al peso dei macchinari. Persero la vita 1.338 persone e si contarono più di duemila feriti. Le ricostruzioni dell’accaduto permisero di attestare che il pericolo di un crollo imminente era annunciato e pertanto prevedibile e che, nonostante questo, i lavoratori e le lavoratrici erano stati*e costretti*e a entrare nell’edificio, pena la minaccia di perdere il posto di lavoro.
Testo: Alessio Girodano
Foto: Clean Clothes Campaign; Pieter ven den Boogert, Alessio Giordano
Un articolo del giornale di strada zebra. del aprile 2023
Il 24 aprile 2013, a Dacca, capitale del Bangladesh, il Rana Plaza - un palazzo di otto piani che ospitava al suo interno cinque imprese tessili - crollò a causa di un cedimento strutturale dovuto al peso dei macchinari. Persero la vita 1.338 persone e si contarono più di duemila feriti. Le ricostruzioni dell’accaduto permisero di attestare che il pericolo di un crollo imminente era annunciato e pertanto prevedibile e che, nonostante questo, i lavoratori e le lavoratrici erano stati*e costretti*e a entrare nell’edificio, pena la minaccia di perdere il posto di lavoro.
Dopo Rana Plaza
La dimensione della tragedia e l’eco mediatica del più grave incidente nella Storia dell’industria tessile hanno acceso i riflettori sulle condizioni di lavoro a cui gli*le operai*e – l’80 percento sono donne - sono sottoposti*e in Bangladesh e, al tempo stesso, ha rappresentato una possibilità per gli*le attivisti*e e le organizzazioni impegnate per la tutela dei diritti umani. Tra queste Clean Clothes Campaign, rete che comprende più di 230 organizzazioni in tutto il mondo e la cui attività si declina in quattro ambiti di intervento: risoluzione di casi di abuso verso lavoratori e lavoratrici all’interno delle fabbriche, ricerca, campaigning e advocacy.
“Il Rana Plaza ha rappresentato un momento di cesura con una cultura fatta di dichiazioni per la sostenibilità unilaterali, basate su principi volontaristici da parte dei brand della moda, e ha favorito l’entrata in vigore di accordi molto importanti per i lavoratori e le lavoratrici del settore”, afferma Deborah Lucchetti, coordinatrice della Campagna Abiti Puliti, una delle 14 coalizioni nazionali in Europa della Clean Clothes Campaign. Nel 2013, la pressione esercitata da Clean Clothes Campaign e dai sindacati internazionali portò alla ratifica dell’“Accord on Fire and Building Safety in Bangladesh”, noto anche come “Bangladesh Accord”. Sottoscritto da più di 200 marchi, dai sindacati internazionali e da quattro organizzazioni della società civile, questo accordo ha posto sotto tutela 1600 fabbriche in Bangladesh, per un totale di 2,5 milioni di lavoratori*rici (sui 4,5 totali).
Aggiornato nel 2018, il 1° settembre 2021 è entrato in vigore un nuovo accordo vincolante sulla sicurezza dei lavoratori del settore tessile in Bangladesh, l“International accord for health and safety in the textile and garment industry”. Basato sul “Bangladesh Accord” del 2013, introduce una serie di elementi innovativi: libertà di associazione per lavoratori e lavoratrici, controlli nelle fabbriche da parte di ispettori terzi indipendenti, un programma di formazione per operai*e e management, supporto finanziario per le riqualificazioni delle fabbriche da parte dei marchi committenti, risanamento degli impianti di produzione e un alto livello di trasparenza e pubblicità dell’attività di controllo. L’accordo rinnovato del 2021 prevede poi la sua estensione anche ad altri Paesi. Il 14 dicembre 2022 è stato così introdotto in Pakistan, dove sono già circa 40 i marchi firmatari, per un totale di 300 fabbriche.
Un ulteriore traguardo raggiunto è rappresentato dal “Rana Plaza Arrangement”, che, sottolinea Lucchetti, “ha fatto storia, perché ha stabilito un principio risarcitorio secondo la Convenzione ILO (International Labour Organisation) 121 sugli infortuni sul lavoro, attraverso un meccanismo di risarcimento equo e trasparente”. Il Rana Plaza Agreement ha visto i grandi marchi dell’abbigliamento raccogliere 30 milioni di dollari per risarcire parzialmente – per il mancato reddito da lavoro, ma non per gli aspetti legati al danno psicologico e morale – familiari delle vittime e lavoratori*rici. Un traguardo per il quale Clean Clean Clothes Campaign ha lottato per anni e che Lucchetti giudica importante, perché “mette in campo un dispositivo equo, trasparente e oggettivo fondato sul diritto e non sulla carità del singolo brand.”
“Il Rana Plaza ha portato ad accordi molto importanti per lavoratori e lavoratrici.”
La lotta continua
Sebbene i dispositivi introdotti in seguito al crollo del Rana Plaza abbiano migliorato le condizioni di milioni di lavoratori e lavoratrici, in Bangladesh - terzo Paese al mondo per esportazioni del cosiddetto ready-made garment (capi d’abbigliamento prodotti in serie) dopo Cina e India - c’è ancora molto da fare. Al 20 marzo 2023 più di cento marchi internazionali, tra cui Ikea, Levi’s, Decathlon e Disney, non avevano ancora sottoscritto l’“International Accord”. Lucchetti, inoltre, evidenzia che “i miglioramenti apportati non sono stati metabolizzati dal sistema generale mondiale e non esiste ancora una rete di protezione sociale per i*le lavoratori*rici in caso di crisi.” A complicare ulteriormente il quadro in questo senso ha contribuito la pandemia e la conseguente interruzione delle filiere internazionali. A causa delle chiusure temporanee delle fabbriche, molti*e operai*e hanno percepito retribuzioni ridotte o hanno perso il posto di lavoro senza un'adeguata compensazione finanziaria. Allo scopo di rivendicare gli stipendi sottratti alla manodopera tessile durante la pandemia - stimati dal report “Still (Under)paid” di Clean Clothes Campaign in 11,85 miliardi di dollari - è nata la campagna “PayYourWorkers”. Promossa da una coalizione di oltre 200 sindacati e organizzazioni della società civile di 35 Paesi diversi, l’iniziativa richiede ai marchi della moda di restituire a lavoratori e lavoratrici ciò che è stato sottratto loro durante la pandemia e di istituire un fondo internazionale di sicurezza in caso di crisi o di perturbazioni di qualunque natura, perché, commenta la coordinatrice di Abiti Puliti, “osserviamo che laddove non ci sono sistemi pubblici di protezione sociale le persone più vulnerabili soccombono.” “PayYourWorkers” intende riparare questa mancanza.
Deborah Lucchetti ritiene che, a livello globale, “gli accordi raggiunti in questi anni propongono un modo nuovo di fare impresasicuramente prezioso, ma ancora troppo isolato” e giudica la condizione complessiva degli*lle operai*e del tessile “molto negativa, perché pervasa da situazioni di sfruttamento, compressione dei salari, violazioni dei diritti umani e restrizione dei diritti sindacali”. La tutela dei diritti appassiona da sempre la referente di Abiti Puliti, che si è avvicinata da giovane alla storia del movimento operaio del quale fa parte per esperienza e biografia. L’attivista ed ex sindacalista torinese, da quindici anni al fianco di lavoratori e lavoratrici del comparto tessile, è convinta che ognuno*a possa svolgere un ruolo importante e auspica che cittadini e cittadine globali si spoglino del ruolo di consumatori*rici e si attivino in prima persona, perché “per cambiare le regole del gioco dobbiamo prima mettere in discussione il sistema e questo lo si fa soprattutto attraverso la politica dal basso.”
“Dove non ci sono sistemi pubblici di protezione sociale, le persone più vulnerabili soccombono.”
La Fashion Revolution Week in Alto Adige
Anche quest’anno la settimana di eventi di sensibilizzazione sugli effetti sociali e ambientali della produzione e delocalizzazione del settore tessile e abbigliamento sbarca in Alto Adige.
Ogni anno nella settimana del 24 aprile, anniversario del crollo del Rana Plaza, in tutto il mondo ha luogo la Fashion Revolution Week, iniziativa promossa dal movimento globale Fashion Revolution, che si batte per un’industria della moda pulita, sicura, equa e trasparente. Da alcuni anni anche alcune organizzazioni dell’Alto Adige hanno aderito all’appello, organizzando momenti di discussione e sensibilizzazione per la cittadinanza. Nell’anno del decennale di Rana Plaza le realtà promotrici dell’iniziativa - Rete delle Botteghe del Mondo, unibz, OEW, coadiuvate dalla redattrice, moderatrice e coach Susanne Barta - organizzano la settimana di eventi Fashion For Future, che si terrà dal 27 aprile al 5 maggio, con l’obiettivo di sensibilizzare la cittadinanza sulle dinamiche globali che caratterizzano l’industria tessile. “In Alto Adige la consapevolezza su questo tema è ancora poca”, afferma Brigitte Gritsch, coordinatrice delle Botteghe del Mondo altoatesine. Da più di dieci anni Gritsch si confronta in tutta la provincia con giovani e adulti sui temi del consumo consapevole e osserva che “il lavoro da fare è soprattutto di carattere culturale, ma vedo interesse da parte della popolazione e credo ci siano possibilità di agire per mostrare al pubblico valide alternative di consumo alla moda fast fashion: Fashion For Future è una di queste occasioni.”
La settimana di eventi si apre giovedì 27 aprile con una conferenza, che vedrà protagoniste Deborah Lucchetti (Campagna Abiti Puliti), Martina Spadafora (Fashion Revolution Italia) e Alexandra Letts (Oberalp Group). Il resto del programma, che prevede tra le altre cose una mostra, uno swap-party e la proiezione di un film, è disponibile qui:
Made in Italy?
La crisi legata alla pandemia ha messo in difficoltà il sistema manifatturiero italiano. Oggi il settore è in netta ripresa, ma non è tutto oro quello che luccica.
Anche in Italia, durante la pandemia, l’industria della moda ha vissuto un momento di crisi. Secondo i dati del Sole 24 Ore, nel 2020 il comparto TMA (tessile-moda-accessorio) ha registrato una perdita di fatturato di oltre il 25 percento. Per sostenere (parzialmente) imprese e manodopera, l’Italia ha messo in campo il suo sistema di protezione sociale. Rispettando il blocco dei licenziamenti, per esempio, le aziende del settore hanno potuto contare sui 180 milioni stanziati per la Cassa Covid. Attualmente l’industria della moda italiana è in ripresa in termini di impiego e fatturato: lo scorso novembre, Confindustria Moda ha stimato 545mila addetti ai lavori e un fatturato di 93 miliardi.
È, però, altresì innegabile che l’immagine del Made in Italy appare oggi stropicciata. Se già nel 2010 la legge Reguzzoni ne aveva minato il lustro - stabilendo che possono fregiarsi di questa etichetta i prodotti per i quali “almeno due fasi di lavorazione si sono svolte in Italia e per le rimanenti fasi è verificabile la tracciabilità” –, negli ultimi anni i casi di economia illegale e di morti sul lavoro hanno gettato un’ombra sul settore tessile del nostro Paese. Luana D’Orazio aveva 22 anni ed era impiegata presso un’azienda tessile di Prato quando nel maggio del 2021, dopo essere rimasta agganciata al rullo di un orditoio, è morta inghiottita dal macchinario. Qualche mese prima a perdere la vita, schiacciato da una pressa, è stato Sabri Jabballah, un operaio di 21 anni. Le perizie eseguite nel corso delle indagini sulla morte del giovane hanno contestato molteplici violazioni delle misure di sicurezza e carenze nei sistemi di protezione del macchinario.
Sono, inoltre, diversi i casi di caporalato riscontrati dall’Ispettorato Nazionale del Lavoro, organismo deputato alla vigilanza in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro. A luglio, per esempio, il monitoraggio di sette aziende operanti nel campo della confezione di abbigliamento e del riciclaggio di indumenti in provincia di Napoli ha permesso l’emersione di 21 lavoratori impiegati completamente in nero (su 82) e gravi mancanze in materia di sicurezza del lavoro. La situazione non cambia molto se si guarda al nord Italia, dove lo scorso ottobre tre persone a capo di un’azienda tessile in provincia di Vicenza sono state denunciate per i reati di intermediazione illecita, sfruttamento del lavoro irregolare e violazione delle norme sul lavoro subordinato.
Alla luce di queste problematiche appare evidente che il “Made in Italy”, simbolo dell’eccellenza del sistema manifatturiero italiano a livello globale, non garantisce a priori rispetto e tutela dei diritti. Resta quindi fondamentale proseguire con un’efficacie azione di monitoraggio al fine di mantenere alta l’attenzione sulle condizioni dei lavoratori e delle lavoratrici del settore, dal Bangladesh all’Italia.